Rifiuti organici: “Ecco perché i biodigestori sono la soluzione corretta”

L'esperto Francesco Capone risponde al Movimento Zero Waste: non fanno cattivo odore e producono un gas che può essere venduto. In una grande città non c'è alternativa

Torniamo sul dibattito aperto dal “Movimento Legge Rifiuti Zero” che ha organizzato un incontro lo scorso 26 gennaio per criticare la scelta del Campidoglio di voler utilizzare biodigestori anaerobici per smaltire i rifiuti organici. Durante quell’assemblea sono state esposte diverse ragioni che portavano ad una conclusione: rispetto ai grandi biodigestori, sono da preferirsi piccoli impianti aerobici. Diarioromano ne ha dato conto in due diversi articoli (qui e qui) e oggi ospita un intervento opposto. Il dottor Francesco Capone, già dirigente di a2a per il Termovalorizzatore di Acerra, di Waste Italia e oggi Amministratore Unico di Olmobruno srl, spiega perché una grande città come Roma non può prescindere da impianti di biodigestione anaerobica.

Ospitiamo volentieri il suo intervento che risponde alle obiezioni sollevate durante l’incontro del 26 gennaio, dichiarando però il nostro rammarico per il silenzio del Comune. Se i cittadini sollevano un problema, pur avendo torto o ragione, il Campidoglio non può esimersi dal rispondere e dallo spiegare le proprie scelte. Possibile che un dibattito di tale importanza debba essere ospitato dal nostro giornale e né l’assessore, né altri esponenti comunali abbiano sentito l’esigenza di intervenire?

 

 

BIODIGESTORI ANAEROBICI TRA INFODEMIA E VELLEITAIRISMO

di Francesco Capone¹

 

La guerra scatenata da alcune frange dei “contrari a prescindere” nei confronti dei biodigestori anaerobici fa registrare una ennesima iniziativa del Movimento Rifiuti zero che in tre ore di una lunghissima sequela d’interventi diffonde una serie d’informazioni sull’argomento fuorvianti aventi un chiaro intento manipolatorio dell’informazione.

L’argomento è trattato in maniera confusa e generalizzata senza opporre reali ed oggettive motivazioni contrarie ma mescolando notizie di cronaca criminale ambientale con informazioni scientifiche nelle quali il relatore, bada bene a fornire soltanto incidentalmente e senza dare il giusto risalto, dati cardine che potrebbero smentire in tutto od in parte la sua tesi. Questo modo di fare, consistente nel dosare sapientemente le informazioni in maniera tale da condurre l’opinione di chi ascolta verso quello che si desidera sia “la verità”, è un fenomeno che si è sviluppato parallelamente alle “fake-news” e che propone all’opinione pubblica, partendo da un fatto vero o, se necessario, opportunamente sfrondato da altre notizie determinanti per formarsi una opinione corretta, un ragionamento che, manipolato ad arte, ha una conclusione che serve a sostenere le proprie tesi. Si chiama “infodemia” ossia, secondo la definizione dell’Enciclopedia Treccani la: “Circolazione di una quantità eccessiva di informazioni, talvolta non vagliate con accuratezza, che rendono difficile orientarsi su un determinato argomento per la difficoltà di individuare fonti affidabili”.

Tutto ciò è la struttura portante di un ragionamento velleitario e frutto di una particolare ideologia che rifiuta il progresso andando alla ricerca di un disegno del mondo che tenda a riportare la comunità della quale si fa parte ad improbabili abbandoni delle abitudini e delle necessità delle persone o che non tiene conto delle caratteristiche di un determinato luogo.

Parlare di rifiuti zero è velleitario. Non esiste la possibilità di poter azzerare la produzione dei rifiuti perché una certa percentuale di essi non possono essere restituiti a nuova vita o trasformati in altro prodotto. Le pur avanzatissime tecniche di riciclo e riuso dei materiali non possono, almeno a tecnologie disponibili, riciclare o riutilizzare tutti i rifiuti.

La conseguenza dell’adesione di parte della politica a questi sogni, assolutamente condivisibili come tali, è la critica situazione che viviamo a Roma.

Innanzi tutto, sfrondiamo il campo da un equivoco che i fautori dei “sogni” utilizzano come proprio “stendardo”: un impianto di trattamento dei rifiuti non viene pensato, progettato e costruito per produrre energia o altro. Il suo compito primario è quello di eliminare il materiale considerato scarto dalle comunità o dalle industrie. Il fatto che dal trattamento a cui viene sottoposto il rifiuto non riciclabile si possa trarre energia, calore o altro è soltanto un aspetto che serve a “valorizzare” una materia altrimenti senza valore. La contro prova di questo concetto la ritroviamo nel ciclo economico del rifiuto: se un termovalorizzatore od un impianto di biodigestione (che sia aerobica o anaerobica è lo stesso) non applica una tariffa di conferimento del rifiuto (ossia il pagamento per un corrispettivo consistente nel trattamento) l’impianto non sarà economicamente sostenibile. La valorizzazione del rifiuto può consentire di mitigare la tariffa di conferimento ma non è pensabile che i costi di gestione ed i margini di una attività industriale possano essere coperti solo dalla valorizzazione. E la leggenda del “compostaggio di prossimità” deve finalmente ritrovare una collocazione logica nel ciclo dei rifiuti. Non è e non può essere la soluzione principale per il trattamento dell’organico di Roma Capitale. Non può essere perché la legge prescrive che il compost autoprodotto possa essere utilizzato soltanto da chi lo produce e non può essere ceduto, neanche a titolo gratuito, al mondo dell’agricoltura. E poi, una eventuale compostiera aerobica municipale del I Municipio dove s’intende collocarla? A Piazza Venezia forse? Ed ancora, le compostiere di ridotte capacità che ACEA presenta nel suo sito, secondo chi sostiene questo come metodo risolutivo, avranno bisogno di cure? Di manutenzione? Di controllo? E questi servizi saranno forse gratis secondo gli esponenti di “Rifiuti Zero”?

Fare compost non è una cosa semplice. È una cosa complessa per la quale ci vuole lo stesso impegno di un artigiano che produce un gioiello. La materia che serve per fare compost deve essere materia organica senza contaminazioni. Diminuisce la qualità del compost anche una preponderante presenza di materia sottoposta a cottura nell’amato olio EVO, di origine vegetale, che sottoposto ad alte temperature degrada, viene assorbito dagli alimenti e si trasforma e trasformandosi può anche diventare un elemento inquinante. Fare compost significa fare analisi continue. Analisi del materiale in arrivo, analisi del materiale nelle fasi di produzione (normalmente non inferiori a 90 giorni), analisi del materiale in uscita. E se solo un parametro è fuori dai limiti di ammissibilità tutta la partita deve essere trattata come rifiuto, non può essere compost. Per questo motivo la Frazione Organica dei Rifiuti Solidi Urbani, per legge, non può diventare compost. È il cosiddetto “compost grigio” che una collocazione ce l’ha nel sistema dei rifiuti ed è quella di diventare materiale utile alla ricomposizione ambientale od a terreno di copertura delle discariche (sempre che sia perfettamente e completamente mineralizzato) cioè sia inerte. Ed attenzione. Se si vuole fare ricomposizione ambientale la normativa prevede degli accorgimenti atti a mantenere quella materia ben separata dalla cosiddetta “terra vergine” perché non c’è certezza di innocuità di quel materiale. Altro che compost. Io spero fortemente e sono felice se l’ASA di Tivoli riesca a produrre compost dai RSU della cittadina. Poco mi interessa se viene prodotto attraverso un procedimento aerobico od anaerobico ma certamente l’Azienda deve porre molta attenzione a tutte le fasi di produzione perché essere accusati di “traffico illecito di rifiuti” è molto facile, se si guardano i limiti di legge. Perché la pila del gioco di un bambino che viene gettata nel secchio dell’organico inquina una tonnellata di compost, un bicchiere di vetro rotto che finisce nell’organico (e che si badi bene è un inerte e quindi non avvelena e non inquina) lo rende “invendibile” perché una volta sparso nei campi il vetro polverizzato farebbe brillare il campo stesso.

Tornando ai biodigestori. Gli “esperti” di rifiuti zero vedono, nel biodigestore anaerobico il vettore di un possibile rischio di deflagrazioni. Medesimo rischio lo si corre nelle stazioni di pompaggio del metano in arrivo dalla Russia o dall’Africa. Lo si corre per tutte le bombole di gas che vengono utilizzate quotidianamente. Tuttavia, non ho notizie d’incidenti aventi a protagonista un biodigestore mentre se ne contano molti causati da bombole di gas.

Viene evidenziato l’impatto dei mezzi che trasporterebbero i rifiuti verso l’impianto. Veramente non comprensibile. Mi chiedo: “Stiamo parlando per caso dei compattatori che già attualmente girano per le strade di Roma?” Perché questi sarebbero i mezzi che trasportano i rifiuti. Viene detto che i residui, ossia la materia digestata, sarebbero consistenti ed andrebbero a loro volta trattati. Premesso che il digestato di un impianto aerobico che tratta RSU deve subire i medesimi trattamenti di quello che esce da un impianto anaerobico, perché non è vero che un impianto di digestione aerobica di RSU produce compost, mi chiedo che differenza c’è tra la necessità di far mineralizzare completamente entrambi i materiali. Tanto più che la tecnologia ci mette a disposizione gli impianti di pirolisi posti in coda al trattamento grazie ai quali si sterilizza biologicamente e si fissano fisicamente tutti i componenti presenti. In natura nulla si crea e nulla si distrugge ma tutto si può trasformare. Ed io mi chiedo perché la trasformazione in energia di quello che si può trasformare in energia debba essere considerata una bestemmia.

Ma cosa significa biodigestore? Il biodigestore è un impianto dove la materia organica viene fatta degradare, cioè viene fatta decomporre, per intenderci, viene lasciata che vada in putrefazione. Allora, se questo processo, alquanto disgustoso, viene fatto in maniera aerobica significa che lo si fa con l’ausilio dell’aria. Se viene fatto in maniera anaerobica lo si fa al chiuso. In luogo sigillato. Ora, senza per questo dover essere dei laureati in Ingegneria, le emissioni odorigene di un impianto che necessita dell’aria saranno maggiori o minori di uno che dell’aria non ha bisogno? Esistono i biofiltri, mi si dirà, ma si chieda a chi risiede vicino ad un impianto aerobico qual è l’impatto odorigeno di quegli impianti.

Anche in questo caso voglio richiamarmi all’esperienza dell’ASA di Tivoli. Contrariamente ai detrattori della biodigestione anaerobica non critico ed anzi sono contento se quell’Azienda ha trovato una soluzione efficace con quel sistema. Mi complimento con l’Azienda e soprattutto con i cittadini di Tivoli che, evidentemente, fanno una ottima differenziata “a monte” della raccolta. Capisco che un impianto grande quanto un container di grandi dimensioni non sia insopportabilmente odorigeno, ma proviamo a trasferire il modello su di una metropoli di 2.800.000 abitanti, proviamo a ragionare sull’VIII Municipio, che è il meno popolato di Roma e che conta comunque 131.000, abitanti e non i quasi 60.000 di Tivoli. E su questo qualcuno ancora mi deve spiegare il “compostaggio municipale di piccole dimensioni” dove lo si vuole realizzare? Nel cortile della sede della Regione Lazio?

Nella lunghissima assemblea densa di interventi risalta una confusione inaccettabile tra impianti anaerobici fatti per la produzione di energia e gli impianti anaerobici fatti per i rifiuti. Nei primi si producono grandi quantità di fanghi (a seconda della qualità di biomassa vergine utilizzata), nei secondi è normalmente prevista un’uscita di materiale stabilizzato. Questo confondere la pubblica opinione dando informazioni sì vere, ma non conferenti l’argomento specifico, è un modo di fare tipico della disinformazione organizzata.

È ugualmente fuorviante immettere nel dibattito le emissioni fuggitive di metano dalla rete nazionale del gas. Ammesso che tali perdite esistano quale motivazione logica esiste nel contrastare una soluzione quale quella del digestore anaerobico? L’apporto del metano proveniente dalla biodigestione aumenta forse le perdite? C’è differenza tra il metano che si libererebbe in atmosfera e proveniente dai giacimenti e quello proveniente dal trattamento dei rifiuti?

Ma ciò non basta. Se si sottopone a pirolisi il digestato e si rende innocua la sua possibile pericolosità quale altro problema si vuole surrettiziamente sostenere?

È chiaro che un impianto di compostaggio aerobico costi di meno. Sfruttando in maniera prevalente le condizioni naturali non necessita di grandi apprestamenti. Trarre, invece, dai rifiuti il biogas, che nel primo caso si disperde nell’aria (e da qui gli odori nauseabondi), purificarlo, raffinarlo e trasformarlo in metano è chiaro che prevede una impiantistica industriale complessa e costosa e che è sostenibile non per i contributi statali, che se esistenti servono ad incentivare le iniziative e ricordiamo hanno una scadenza, ma per la coesistenza tra la tariffa di conferimento e la valorizzazione dei rifiuti.

Sull’intervento della Dott.ssa Laura Reali c’è invece da notare che:

  • Interviene in una Assemblea di cittadini che dovrebbe dibattere di anaerobico sì o no e fornisce dati sulla mortalità da cancro nelle aree contigue alle discariche a Roma (anche perché a Roma impianti di digestione anaerobica non esistono);
  • Fornisce una serie di informazioni circa i rischi derivanti dalla digestione anaerobica quanto a produzione di sostanze tossiche ma presuppone che tali sostanze vengano rilasciate senza fornire alcun elemento su tale eventualità (è mai accaduto? Quando? Dove? Come?). Cioè, con un metodo ormai collaudato di disinformazione, si presume come avvenuto ciò che si vuole pur di contrastare qualcosa, senza prendere in considerazione le misure di mitigazione che l’impresa o le Autorità potrebbero prendere. Il tutto nel più becero populismo d’accatto che vede nelle imprese e nell’Autorità un covo di corrotti e corruttori;
  • Dirotta il discorso sul no ai termovalorizzatori, argomento non conferente alla discussione, sciorinando dati che lei stessa deve ammettere che sono: “comuni a tutte le zone industriali”. In merito all’aumento della mortalità da cancro causato dai termovalorizzatori non spiega come mai l’area di Stoccolma, dove ne esistono 7, è l’area con minor incidenza di mortalità per cancro in Europa (fonte Sole 24 ore dell’11 luglio 2020).

Ho poi ascoltato ripetutamente cose inverosimili come l’utilizzo della FORSU (Frazione Organica da Rifiuto Solido Urbano) per la produzione del compost per l’agricoltura mentre chiunque tratti rifiuti sa che non è una cosa opportuna o cose non conferenti l’argomento (non poche) come l’intervento di un giornalista che ha parlato dello spandimento di rifiuti fatti passare come compost, fatto criminale ma non connesso alla biodigestione anaerobica od aerobica.

Traspariva la certezza di un miglioramento della raccolta differenziata in una città, come Roma, che ha dimostrato, nel tempo, che non è capace di raggiungere livelli accettabili riguardo la qualità della sua raccolta, testimoniata dall’elevatissimo numero di respingimenti in Italia ed all’estero da parte degli impianti di destinazione.

Per concludere. I problemi si affrontano cercando di risolverli senza “sognare” un mondo che se si realizzasse ci riporterebbe all’età della pietra. Le scelte vanno fatte in base alle cosiddette BAT (Best Available Technologies).

I biodigestori anaerobici sono più sostenibili ambientalmente semplicemente perché “non puzzano” quanto quelli aerobici. Sono più sostenibili perché producono un gas che può essere venduto, utilizzato e quindi se non è un riciclo è certamente un recupero. Perché non è vero che la termovalorizzazione ed i trattamenti anaerobici non sono considerati “virtuosi” dalla UE perché altrimenti non sarebbero nella categoria “R” dei trattamenti. Perché chi lavora nel mondo dei rifiuti sa che poter avere un rifiuto da inviare ad un impianto in R1 è la condizione migliore possibile. Perché non è considerato “smaltimento” (che ha il codice D) ma Recupero o Riciclo.

Perché per una città grande come Roma è il biodigestore la soluzione perché il cosiddetto compostaggio di prossimità è un altro di quei sogni provenienti da una visione ideologizzata della vita che non risolve. Nulla in contrario alle compostiere di comunità. Ma deve rimanere una scelta di quella comunità non un servizio offerto nell’ambito del servizio pubblico di gestione del ciclo dei rifiuti.


 

¹Docente del Master in “Executive in Environmental Crime and Terrorism Intelligence”, è stato dirigente di a2a per il Termovalorizzatore di Acerra, ha lavorato per Eni, Waste Italia e attualmente è amministratore Unico di Olmobruno srl, società del gruppo Egea che si occupa di compostaggio da rifiuti; presidente di SCL Ambiente srl, specializzata nel trattamento dei rifiuti pericolosi e nocivi

 

In copertina il biodigestore di Anagni, foto FrosinoneToday

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3 risposte

  1. Scusate è lo stesso Francesco Capone della “Olmo Bruno” di Magliano Alfieri che è stata sequestrata e che molti dirigenti hanno patteggiato per “traffico illecito di rifiuti” e dove nove imputati hanno patteggiato pene da 5 mesi fino a un anno e 4 mesi?

  2. Bravo Capone! (che non è un bandito).
    Finalmente concetti chiari e distinti, direbbe Croce.
    Basta con i Nimbi ignoranti e mistificatori!

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