Viene definita “povertà alimentare” e non dobbiamo immaginarlo come un problema confinato ai paesi in via di sviluppo ma riguarda una fetta consistente della nostra città, dove in tre grandi Municipi si fa fatica a comprare cibo fresco e sufficientemente proteico.
L’Osservatorio Insicurezza e Povertà Alimentare, promosso dal Consorzio Universitario per la Ricerca Socioeconomica (CURSA), ha presentato i primi risultati di una ricerca condotta nel 2022 e che prosegue anche quest’anno. Il quadrante est, quello che comprende il V, VI e VII Municipio è considerato il più critico e qui i residenti dovrebbero raddoppiare il loro reddito per avere accesso ad una dieta sana.
Di contro, il I, VIII, XII e XV Municipio godono di una accessibilità alta. Un solo Municipio, il II, è classificato come ad accessibilità molto alta.
Dunque per semplificare, le Torri (Tor Bella, Tor Pignattara, Torre Maura, etc), Centocelle, Casilino vedono un reddito troppo basso, mostrano carenza di punti vendita di cibo fresco e acquistano alimenti per lo più a base di zuccheri e carboidrati.
Dal lato opposto, Centro Storico, Monteverde, Appia Antica, Fleming, Corso Francia dove c’è ampia offerta e il reddito permette di fare una spesa più varia e equilibrata. Mentre Parioli, Flaminio, Trieste godono di un’accessibilità molto alta. La differenza tra i più poveri e i più ricchi è così elevata che una famiglia di un quartiere meno abbiente dovrebbe guadagnare il 115% in più per potersi permettere un carrello di qualità.
L’Osservatorio ha stilato una serie di raccomandazioni per la politica, nel tentativo di colmare questo gap. La prima riguarda i minori: garantire ai più piccoli una alimentazione sana significa avere domani adulti meno ammalati.
Poi si chiede alle famiglie un consumo più responsabile, con meno spreco; più aiuti territoriali e campagne volte ad aumentare la solidarietà privata.
Il rapporto non entra nel dettaglio del cibo acquistato dai più poveri ma parla solo genericamente di scarsa qualità. Il tema è complesso e riguarda le scelte alimentari degli italiani, a prescindere dalla loro fascia di reddito, che sono cambiate radicalmente negli ultimi 30 anni. Fu il Censis, già nel 2016, ad analizzare questo fenomeno evidenziando che nel nostro Paese si consumano sempre meno carne, pesce, frutta e verdura a vantaggio di piatti pronti, elaborati e ricchi di zucchero e sale aggiunti.
Quello che è appunto il “food social gap“, si allarga sempre più: le famiglie a basso reddito hanno ridotto il consumo di carne del 45.8% contro il 32% di quelle benestanti. Per il pesce il 35,8% delle meno abbienti rinuncia all’acquisto, contro il 12,6 delle più ricche. Meno verdura per il 15,9% di chi ha basso reddito, mentre solo il 4.4 delle più abbienti ne ha ridotto il consumo.
Ma attenzione, non significa che le famiglie povere mangino meno (scelta che potrebbe avere conseguenze positive sulla salute nonostante quello che si pensa), ma che mangiano peggio. La carne e il pesce, infatti, vengono sostituiti con maggiori quantità di cibi in scatola e carboidrati (pane, pasta, pizza, patate). La conseguenza di questo eccessivo uso di alimenti ricchi di zucchero (ricordiamoci che anche pane e pasta sono zuccheri per il nostro corpo), porta ad una crescita esponenziale delle malattie metaboliche (diabete, ipertensione, glicemia alta, obesità). Ridurre, se non addirittura eliminare le proteine rappresentate da carne bianca o rossa, pesce e uova è una scelta che può provocare conseguenze serie sulla salute di ciascuno e porta ad una popolazione obesa.
Ma come si fa ad acquistarne se non si ha un reddito sufficiente? Le istituzioni difficilmente forniscono aiuti alimentari se non a coloro che versano in condizioni di estremo disagio. Anche quando lo fanno, si tratta per lo più di piatti a base di carboidrati.
Una soluzione al momento non è all’orizzonte e il rischio che nei prossimi anni le popolazioni delle periferie romane siano sempre più ammalate e si riversino in un sistema sanitario al collasso, è molto concreto. E’ una tendenza che sembra inarrestabile tanto che – secondo i dati pubblicati dall‘Istituto Superiore di Sanità – nei 15 paesi Ocse oltre il 50% degli adulti è considerato obeso o sovrappeso. Negli ultimi 20 anni il tasso di obesità è più che raddoppiato negli Stati Uniti, è triplicato in Australia e nel Regno Unito. Solo Giappone, Corea, Francia e Svizzera non registrano forti aumenti di obesità.
L’Italia va male col 46% degli adulti (23 milioni di persone) e il 27% dei bambini (2,2 milioni) che sono obesi o in sovrappeso.
Se non si riuscirà a incidere sulle abitudini alimentari dei più poveri (ma non solo), andremo incontro a generazioni di persone costantemente ammalate che sarà difficile curare.