L’ultima estate in città: un viaggio ancora attuale nella Roma di Calligarich

Un romanzo del 1973 dalla storia turbolenta che è tornato in libreria. La vita dei trentenni di ieri e di oggi inchiodati in una capitale meravigliosa ma senza speranza

Oggi vi vogliamo parlare di un romanzo molto particolare, con una storia editoriale altrettanto unica nel suo genere: L’ultima estate in città di Gianfranco Calligarich, pubblicato da Garzanti nel 1973. In una sola estate vennero vendute 17 mila copie. Stranamente non fu ristampato, sparendo dal mercato con la stessa velocità con cui aveva conquistato il pubblico.

 

L'ultima estate in città – Gianfranco Calligarich | Gli Amanti dei Libri

 

Passarono gli anni e il romanzo di Calligarich divenne un libro cult da scovare nelle bancarelle e nelle librerie. Soltanto nel 2010 tornò alla ribalta grazie ad alcune tesi universitarie e a dei club di lettori, che iniziarono a far circolare il testo non più in commercio. Così, la casa editrice Aragno decise di ripubblicarlo terminando in pochissimo tempo tutte le copie a disposizione e quelle già vendute cominciarono a circolare su internet con prezzi da collezionisti. Il romanzo sparì di nuovo dai radar fino al 2016, quando la Bompiani decise di diventare il terzo editore di questo testo mandandolo in stampa e facendolo uscire dalla clandestinità.

 

Per raccontare questa storia letteraria e questo bellissimo romanzo non è certo sufficiente un articolo. È davvero impossibile sintetizzare la mole di contenuti sociali e letterari che Calligarich è stato in grado di raccogliere in sole 170 pagine. Un ritratto ironico e nello stesso tempo rude di un giovane ragazzo che lascia Milano per approdare a Roma, per inseguire i suoi sogni ma soprattutto per cambiare vita. Non è la solita storia di ascesa sociale, di riscatto o tanto meno di disperazione. Calligarich non è un neorealista, non si immette in un filone consolidato, ma decide di narrare le contraddizioni di una città e di un determinato ceto sociale in un momento preciso della vita di un ragazzo, ovvero il giro di boa dei trent’anni: “Cosa gli dirai quando l’angelo dei trent’anni ti comparirà davanti con la spada fiammeggiante a chiederti per l’ultima volta cosa intendi fare della tua vita?”.

L’ultima estate in città è proprio questo, la fine della gioventù, degli ideali, delle passioni che ti infiammano la testa e lo stomaco. Una gioventù che viene fagocitata da Roma con estrema facilità, con una rapidità che non concede il tempo di riflettere, di muovere bene le proprie pedine:

Roma ha in sé una ebrezza particolare che brucia i ricordi. Più che una città è una parte segreta di voi. Una belva nascosta”.

 

Il perno centrale della storia ruota attorno alla strana pigrizia o, meglio, all’inerzia che la città degli anni Settanta infonde in questi giovani ragazzi che volevano soltanto cambiare le proprie vite: Leo, Arianna, Graziano, Rosario, Livio, Elena, Viola, Renzo, e molti altri sono soltanto burattini nelle mani della città. Li potremmo perfettamente trasmigrare nel film di Paolo Sorrentino, La grande bellezza, farli sedere sul terrazzo di Jep Gambardella ed essere certi di non stravolgerne la trama. Sono giovani ma già distrutti dalle dinamiche cittadine, e non parliamo di dinamiche produttive o imprenditoriali, parliamo della Roma dei salotti, dei club, delle terrazze, delle feste, dei rapporti umani effimeri, dei bar di piazza Navona quando tutti si conoscevano e potevi spostare una sedia da un tavolo all’altro, come se stessi bevendo in una piazza di un paese. Parliamo della Roma da bere, di Trastevere, di Campo de’ Fiori. Dove solo la bellezza e la solennità “monotona” delle chiese e dei monumenti riuscivano a sorreggere ancora per un po’ le vite di tutti.

 

Qualcuno entrerà nel mondo della televisione, altri decideranno di emigrare, altri ancora scriveranno per redazioni di giornali, mentre Leo il protagonista salterà da un lavoro mediocre all’altro fino ad approdare al Corriere dello Sport, non certo come giornalista ma come battitore a macchina di articoli scritti da giornalisti veri.

In questo turbinio di mediocrità e inettitudine, la parola chiave dei personaggi sarà sempre “alziamo le vele”, e così pagina dopo pagina si avverte il covare di un sentimento di repulsione verso la città, un lento disinnamoramento per darsi la forza di partire e andar lontani da lì. Ma questo non accade, perché?

Natalia Ginzburg cerca di rispondere a questo interrogativo commentando il romanzo e la realtà di quella generazione narrata da Calligarcih:

è una Roma inospitale, solenne, vasta e indifferente, e tuttavia prodiga nell’accordare a ogni esule e a ogni randagio qualche zona di protettiva penombra, non amica e non materna ma piuttosto beffardamente complice”.

 

“Beffardamente complice” ecco, dunque, quella forza di gravità che il lettore percepisce nel romanzo. Una forza che si muove nell’ombra, nella psiche del protagonista:
Roma era la nostra città, ci tollerava e ci blandiva e anch’io finii per scoprire che nonostante i lavori sporadici, le settimane di fame… era il solo posto dove potessi vivere”.

 

Leo Gazzarra incarna diversi personaggi ormai celebri nel loro rapporto con la città: è debole come Romano (Carlo Verdone) in La grande bellezza, ma non è forte come lui nell’abbandonarla, frequenta i salotti romani e va in redazione vestito come Jep Gambardella (Toni Servillo), senza averne però lo stesso portamento o tanto meno la stessa sicurezza.

 

Volendo cambiare confronto cinematografico, potremmo usare C’eravamo tanto amati di Ettore Scola: Leo è un falso idealista come Gianni Perego (Vittorio Gasmann), un finto giornalista come Nicola Palumbo (Stefano Satta Flores) e ama e prova pietà per Arianna come Antonio (Nino Manfredi).

Gianfranco Calligarich ha bruciato il mercato librario perché è stato semplicemente l’anticipatore di tutto quello che stava e sta ancora accadendo a Roma. I ragazzi si sono impersonificati nei mestieri discontinui di Leo, nelle amicizie affogate nell’alcol con Graziano. Una generazione di lettori ha visto i cambiamenti di Roma negli anni Settanta, l’oziosità dei salotti, l’affarismo delle sedi tv e delle redazioni di giornale. Tutte dinamiche che non sono mai del tutto cambiate. Sullo sfondo le chiese, l’arte, i monumenti, le passeggiate, la città vuota di notte quando puoi sentire “i palazzi invecchiare” e “il fiume scorrere”, quella bellezza che in qualche modo ti inchioda nella capitale, dove “anche la pioggia sembra che chieda sempre qualcosa”.

Ancora oggi, Calligarich continua a parlare ai giovani lettori: “Che fare quando l’angelo dei trent’anni comparirà davanti a chiederti per l’ultima volta cosa intendi fare della tua vita?”.

Il merito di Calligarich è tutto qui, non tanto nell’aver narrato le dinamiche di una città, quanto, come chiosa Natalia Ginzuburg: “Nell’aver illuminato con disperata chiarezza il rapporto fra un uomo e una città, cioè tra la folla e la solitudine”.

In questo dualismo si alimenta la “belva”, Roma, che non fa e non farà mai differenza tra “assediati” e “assedianti”. Del resto, quando si arriva al bivio, la decisione da prendere sarà sempre intima e personale: resistere o “alzare le vele”?

Buona lettura!

 

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