Centro storico e commercio: fogliette e meloni, guardie e signori

mc donald

 

Tra le convulsioni tutte interne al M5S e le problematiche che continuano ad affastellarsi nella città, le ultime settimane hanno anche riproposto un tema “appassionante”: l’apertura di un McDonald vicino a San Pietro!

Le polemiche mai sopite e le dichiarazioni vibranti di sdegno sono riemerse. Con l’ovvio corollario di quali debbano essere le politiche di tutela delle attività commerciali e artigianali nel centro storico romano.

Una lunga chiacchierata natalizia tra vino e torroni con due vecchi amici, che hanno navigato tra l’amministrazione e le categorie economiche, mi hanno confortato su alcune mie convinzioni. Dichiaro subito di non essere per nulla scandalizzato e, anzi, di trovare positiva la nascita del nuovo punto vendita. Ma, allora, cosa bisognerebbe fare a Roma per migliorare l’offerta di negozi e botteghe?

Una città come la nostra ha accumulato una quantità innumerevole di patrimonio storico, artistico, archeologico, monumentale, paesaggistico che, al di là della bellezza, rappresenta un’eccezionale risorsa ma anche una straordinaria complessità.

Al di là delle opinioni di urbanisti e storici dell’arte, l’impressione è che si oscilli tra due visioni con contrapposti e forti limiti. O la formula “museo a cielo aperto” con la sostenuta impossibilità di qualsiasi trasformazione o semplice modifica del tessuto anche economico, quasi a voler cristallizzare interi quadranti a un’ipotetica età dell’oro. Oppure la pretesa di poter intervenire su ogni testimonianza storica in nome delle “magnifiche sorti e progressive” e delle affermate esigenze del mercato.

Trovare un compromesso è stato un proposito delle differenti amministrazioni che si sono susseguite in Campidoglio, nonché di provvedimenti succedutisi nella legislazione nazionale. Ma se il D. Lgs. 42/2004, il tanto spesso citato Codice dei beni culturali e del paesaggio, ha definito le regole generali sulle quali muoversi, Roma ha adottato, in linea di massima, una regolamentazione locale improntata quasi sempre al divieto.

E nei lamenti di tanti intellettuali e maestri del pensiero risuona una nostalgia che sa di antico (al di là dell’età anagrafica) per tempi in cui il mondo appariva più semplice, in cui ci si portava il “fagotto” da casa e si mangiava sotto i tralci delle osterie consumando il vino nelle “fogliette” oppure i negozi di passamanerie erano così frequentati in cerca di finiture per abiti o mobili. Lor signori sì che sapevano vivere…

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Foto collezione privata Stefano Vannozzi

 

 

In realtà, la politica del divieto, ammesso che sia ritenuta la più efficace, deve basarsi su poche e pertinenti limitazioni e, possibilmente, nel momento in cui i fenomeni di “dequalificazione” sono appena cominciati. Quando, invece, si vorrebbe impedire l’apertura di numerose tipologie di attività già largamente diffuse è come rincorrere i buoi fuggiti dalla stalla.

A questo va aggiunta la perdita di una delle funzioni essenziali di una pubblica amministrazione efficiente: i controlli. Come testimonia la storia recente, la mancanza di controlli preventivi o successivi, ma soprattutto di un serio e ragionato piano di verifiche, ha dato come unico risultato che attività di scarso pregio (spesso in mano a organizzazioni criminali) hanno trovato il modo di aggirare le prescrizioni, mentre investimenti privati di un certo valore hanno cercato altre città dove impegnarsi.

Uffici amministrativi e Polizia Locale mancano di professionalità o di volontà per attuare un pur minimo segnale che possa contribuire a ridimensionare a livelli fisiologici l’elusione sistematica delle regole che oggi impera a Roma. Abbiamo ancora presente i ridicoli blitz dell’Assessore Muraro insieme alla Sindaca Raggi tra i cassonetti o dell’Assessore Meloni su quattro tra le centinaia di venditori abusivi, senza alcuna strategia o pianificazione né alcuna sinergia o collaborazione con le forze dell’ordine. Da qui una delle cause del senso di abbandono e di degrado percepita nei quartieri. Alla faccia della trasparenza e dell’onestà tanto sbandierata a parole quanto omessa negli atti concreti!

Purtroppo su questa china si è inserito anche il D. Lgs. 122/2016 (decreto SCIA 2) che, insieme a un’abbuffata di “modifiche semplificative”, ripropone le norme romane, concedendo la possibilità di vietare tipi o categorie merceologiche in alcuni ambiti cittadini. Un decreto, purtroppo, che arriva con quasi 15 anni di ritardo e che ad oggi, ormai, non serve quasi a nulla sulla strada di un’autentica semplificazione unita a un efficace controllo, se non a certificare uno sforzo normativo buono solo per qualche classifica internazionale poco avvezza ad autentici meccanismi di riduzione delle inutili complicatezze della burocrazia italiana…

Ma torniamo alle decisioni capitoline. Attualmente vige la delibera di Consiglio n. 36/2006 per la tutela di tutto il settore del commercio e dell’artigianato in Città Storica (ambito, tra l’altro, più vasto del tradizionale Centro Storico) a cui si affianca la delibera di Consiglio n. 35/2010 per le sole attività di somministrazione di alimenti e bevande (sostanzialmente bar e ristoranti). Si compongono di elenchi di attività tutelate (tra cui librerie o negozi storici) e di attività vietate (commercio all’ingrosso o sale giochi, tra le altre), e poi di lunghi elenchi di vie o piazze nelle quali aprire un’attività food non è possibile o fortemente limitata.

E‘ stata pubblicizzata negli ultimi giorni una proposta di modifica dei regolamenti che prevederebbe un’ulteriore stretta. La proposta reca la firma di Corsetti (PD) ma sarebbe condivisa anche dagli altri gruppi capitolini di maggioranza (M5S) e opposizione (FI e Fd’I). Errare è umano, ma perseverare… In mancanza di controlli, alzare ulteriormente l’asticella serve davvero a poco se non (come si dice a Roma) a buttarla in caciara. Tra qualche tempo l’elusione delle nuove norme farà alzare nuove lamentazioni alle quali seguiranno nuovi interventi e così via.

Il riflesso pavloviano di tutte le amministrazioni è una reazione “urgente” ed emotiva per tacitare la pancia dei residenti. Ma a fronte di quasi 23.000 attività economiche presenti nel 1° Municipio i pubblici esercizi sono circa 3.000 (dati open del marzo 2016 riportati sul sito di Roma Capitale) e rappresentano meno del 15% dell’intero settore commerciale e artigianale. E’ un dato ovviamente molto grossolano, serve, però, a rendere l’idea. Così come anche per i minimarket ci accorgeremmo di non essere molto distanti.

minimarket

 

Quello di cui ci sarebbe davvero urgenza, al contrario, sarebbe uno studio serio (e, compatibilmente, rapido) sulla presenza di attività su strada nel territorio, su quali siano gli sviluppi possibili in quel contesto, su cosa serva davvero ai residenti e ai flussi turistici che si riversano quotidianamente nel Centro, quali le tendenze del mercato (magari anche quello internazionale), quali risorse (umane ed economiche) siano necessarie, quali procedure le più efficienti. La “licenza a punti” potrebbe essere un primo strumento, imperfetto ma più maturo, laddove i punti fossero ancorati a chiari e adeguati elementi di qualità, non generici e ambigui, ma ancorati e conseguenti ad analisi idonee e strumentali per la tutela della città e per le opportunità degli operatori economici.

In poche parole: programmazione e controllo. In sostanza: promuovere la qualità e non vietare tout court.

Roma ha un destino globale, che lo si voglia o meno. Eleviamo il dibattito, coinvolgiamo e condividiamo professionalità ed esperienze e traduciamo tutto ciò in atti concreti. Tratteggiamo una visione della città anche nello sviluppo economico dei servizi. Usciamo da un chiacchericcio provinciale e ammuffito di intellettuali e professionisti, imprenditori e politici locali di un livello inadeguato per una capitale europea.

E’ meglio tenere chiuse intere vie per un’astratta tutela o preferiamo far sviluppare anche attività economiche in un contesto di qualità che valorizzino davvero il patrimonio che Roma possiede? Vogliamo far riappropriare il pubblico della sua funzione essenziale o lasciare che si perda in pigri e comodi formalismi, che sono poi forieri di degenerazioni nell’illegalità? Vogliamo indirizzare (e controllare) i privati nel contribuire con i loro interventi alla riqualificazione del tessuto urbano o continuiamo a vietare per lasciare, in realtà, che organizzazioni senza scrupoli continuino a devastare il territorio?

Alcune scelte sono qua. Mi sembra, purtroppo, che il tempo sia già ampiamente scaduto.

Ma noi non demorderemo, modesti cronisti, magari, ma testardi e appassionati di Roma.

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