Don Bosco, la storia della Basilica al contrario

Dà il nome ad uno dei più popolosi quartieri della città. Dovrebbe essere San Giovanni Bosco, ma per i romani è sempre Don. Fu quinta per Fellini, Pasolini e Pietrangeli

Possiamo tranquillamente affermare che il quartiere Don Bosco per molti anni ha rappresentato l’emblema della periferia romana, fulcro delle tensioni sociopolitiche e centro di attrazione per tutti quegli intellettuali (e non) che dagli inizi degli anni ’50 vollero capire in quale direzione stesse andando la città.

Tutta l’area venne inquadrata dal governo fascista come una zona di sviluppo già nel piano regolatore del 1931. Poi, tra il 1936 e il 1938, lungo la via Tuscolana vennero edificati gli studi cinematografici di Cinecittà e dell’Istituto Luce, segno tangibile di quello che doveva essere il nuovo corso di espansione della città. Il conflitto bellico, però, rallentò il tutto, anzi fece sprofondare la Tuscolana nell’abbandono più totale, assorbita nuovamente dall’agro circostante. Bisognò, così, aspettare la fine della guerra e il fermento della ripartenza per puntare nuovamente su quella lingua di asfalto che collegava San Giovanni ai Castelli Romani.

La Tuscolana divenne una vera e propria terra di frontiera: costruttori, immobiliari, imprenditori, iniziarono a puntare su quell’area come se fosse il loro Eldorado.

Il primo grande edificio della nuova fase fu l’edificazione della Basilica di San Giovanni Bosco, che presentiamo oggi nella rubrica Mirabilia.

Si tratta di una chiesa che, dopo 62 anni, conserva ancora intatta tutta la forza emancipatrice del quartiere, la volontà di resistenza e resilienza dei suoi abitanti.

La storia che ruota attorno alla nascita della Basilica può, in prima battuta, apparire come banale e scontata: una chiesa in una periferia. Invece, il suo progetto era destinato a cambiare non solo la prospettiva visiva della zona, ma anche la percezione collettiva del sobborgo che prese, per l’appunto, il nome del santo. Proprio per questo, la Basilica è l’anima del quartiere e non potrebbe esistere una Tuscolana senza Don Bosco.

Fino all’anno della sua consacrazione, in città, non esisteva nessun edificio che commemorasse il nome di Giovanni Bosco. L’ordine dei salesiani fece così pressione per realizzare una grande chiesa che ricordasse il fondatore del loro ordine. In questa prospettiva, cosa ci poteva essere di meglio se non una zona nuova totalmente da evangelizzare?

La Pontificia Commissione d’Arte Sacra indisse allora un concorso al quale parteciparono ben 102 concorrenti. A vincere fu l’architetto Gaetano Rapisardi, noto nella scena romana per il suo stile puramente razionalista. Rapisardi, infatti, fu molto attivo durante il ventennio fascista e a lui si deve la realizzazione delle facoltà di Lettere e Giurisprudenza nella città universitaria di Roma La Sapienza.

I lavori iniziarono il 12 settembre 1952. La prima pietra fu collocata dal cardinal Vicario Clemente Micara, sotto lo sguardo curioso dei romani del quartiere, allora per lo più disgraziati che vivevano nelle baracche della Tuscolana, tra la polvere e il fango delle strade. Quei veri romani tanto cari a Pasolini.

Dopo 7 anni di lavori, il 2 maggio 1959 la Basilica di San Giovanni Bosco venne solennemente consacrata.

Un parallelepipedo bianco, sovrastato da un’enorme cupola, terza in grandezza dopo il Pantheon e San Pietro, accoglieva i fedeli in un sagrato che si apriva su una piazza ancora in costruzione. Qui la prima curiosità: secondo una versione popolare, in un primo momento, l’ingresso alla Basilica non doveva essere quello attuale, ma quello che fu inglobato dall’oratorio in via Publio Valerio. Infatti, quello che oggi è il posteriore, coperto dall’oratorio, mostra degli elementi simili alle altre chiese dedicate a San Giovanni Bosco: un ingresso con ai lati due campanili e una piccola cupola che anticipa la più grande.

 

Il sagrato della Basilica, dunque, ridisegnato negli anni Ottanta, sembra sia stato edificato sul retro del progetto originario, per garantire un’apertura sulla grande piazza progettata sempre dal Rapisardi. Così nel tempo il retro divenne l’ingresso.

Stando a questa tradizione orale, la decisione di cambiare la disposizione dell’entrata pare sia subentrata in corso d’opera, quando l’amministrazione comunale decise che la piazza sarebbe stata edificata alle spalle della chiesa. Pertanto, se non si fosse cambiato il progetto, la Basilica avrebbe aperto le sue porte praticamente sul nulla, sui campi dove ancora pascolavano le pecore.

Anche l’interno rappresentò, e rappresenta tutt’oggi, un colpo d’occhio per i visitatori. Marmi policromi e un mosaico di 15 milioni di tessere (100 mq di superficie), realizzato dall’artista napoletano Giovanni Brancaccio, che ripercorre la Gloria di San Giovanni Bosco.

L’esterno, invece, fin dalla sua progettazione, fece discutere per la sua anima razionalista, che ricordava ai cittadini gli edifici fascisti. Lo stile, nonostante venne accettato con riserva e considerato da molti un falso storico attribuito direttamente al Duce, fu il set ideale per film ambientati proprio nel ventennio. Federico Fellini, infatti, girò parte delle riprese del suo capolavoro, La dolce vita, nella piazza antistante la chiesa, spacciando le nuove abitazioni come se fossero gli edifici dell’Eur per la loro incredibile somiglianza.

Non erano certo anni in cui ci si poteva soffermare a discutere su elementi di stile, la Tuscolana andava bonificata ed edificata: furono gli anni della corsa alla speculazione, della cementificazione asfissiante, il quartiere, sebbene ancora privo di servizi essenziali, come le fognature e i trasporti, si riempì di enormi palazzi. Le baracche scomparivano progressivamente e le persone iniziavano a sognare quella nuova vita fatta finalmente di una dignità che, invece, tardò ad arrivare.

Lo sapeva bene Pier Paolo Pasolini, che vagava, spesso, lungo la Tuscolana, per trovare ispirazione, ma soprattutto per denunciare ciò che stava accadendo e dove decise di ambientare parte di Mamma Roma; lo aveva capito benissimo Antonio Pietrangeli che, con il suo film Fantasmi a Roma, denunciò la speculazione edilizia su tutti i fronti, dal centro storico alla periferia. Nella sua pellicola, due fantasmi rischiano di esser sfrattati da un lussuoso palazzo nobiliare a ridosso del chiostro del Bramante, per questo si rivolgono ad un altro fantasma di borgata, che vive per l’appunto in un casale diroccato sulla Tuscolana, prossimo alla demolizione, circondato da nuovi palazzoni a pochi metri dalla cupola di Don Bosco. I due fantasmi del centro (Tino Buazzelli e Marcello Mastroianni), nobili e ben educati, cercano di convincere il fantasma di borgata (Vittorio Gassman), sporco, sboccato e fortemente anticlericale, ad orchestrare un piano per salvare il palazzo del centro. In cambio, il borgataro potrà ottenere di vivere con loro e fuggire dalla periferia, “la tana del diavolo”, come la definisce il fantasma interpretato da Vittorio Gassman.

Scena del film “Fantasmi a Roma”, sullo sfondo la cupola di Don Bosco

 

Il film di Pietrangeli uscì nel 1961, anno in cui il quartiere prese ufficialmente il nome “Don Bosco”, diventando il XXIV quartiere di Roma.

Perché “Don” e non “San”? Che fine aveva fatto l’aggettivo che avrebbe dovuto infondere nuova linfa a tutta l’area? Don Bosco sarebbe dovuto diventare come tutti i quartieri santi di Roma, a partire dalla loro chiesa: San Lorenzo, San Pietro, San Paolo, San Basilio, divenuto anch’esso quartiere nel 1961. Forse la risposta potrebbe arrivare sempre dai vecchi residenti, quelli a cui se chiedete informazioni per San Giovanni Bosco vi potranno consigliare di prendere un treno per Asti, ma se chiedete di voler visitare Don Bosco vi diranno di arrivare in piazza, “la vedi, nun te poi sbajà, è quella fascista”. Tutto questo perché i residenti si sono affidati più alla figura del parroco che a quella del santo. Quel Don Bosco vicino ai ragazzi disagiati, quello che visitava le carceri e dava speranza ai detenuti, che combatteva per la loro dignità e pretendeva più decoro.

Ecco, dignità e decoro, quei due fattori che sono mancati per molti anni nel quartiere, dove non vi erano né miracoli né santità, ma solo la consapevolezza di arrivare tutti i giorni alla fine del giorno: non si viveva nel lustro del chiostro del Bramante, come si ostinavano a fare i fantasmi, ma nella polvere della strada che ricopriva i nuovi palazzi.

In un passaggio del film Mamma Roma, Anna Magnani entra nella Basilica per chiedere conforto e ascolto; di fronte alle preoccupazioni di quella mamma, il cappellano sottolinea che quel riscatto tanto desiderato non sarebbe arrivato così facilmente, fotografando la realtà della periferia con una frase lapidaria: “Sul niente non si costruisce niente”.

 

Come uscirne allora? Affidandosi al Don, per l’appunto, come ricorda la targa nella porta centrale d’ingresso della Basilica, recante il motto caro al santo parroco piemontese: dammi le anime, prenditi il resto.

P.S: il casale nel film Fantasmi a Roma, è la famosa Torre del Quadraro, risalente al XIII secolo. Alla fine, la torre è riuscita a sopravvivere alle demolizioni degli anni ‘60 e ‘70. Oggi è un centro per anziani, punto di riferimento in piazza dei Consoli, e guarda fiera, dritta davanti a sé, la cupola di Don Bosco.

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